GIGANTI VERDI. IL BAOBAB CHE OFFRÌ RIFUGIO AGLI ABORIGENI AUSTRALIANI

18 Settembre 2019

All’interno del suo tronco, protetti da una corteccia accogliente e robusta, già trovavano riparo gli aborigeni che vivevano in Australia nel VI secolo d.C. Stiamo parlando di un antichissimo esemplare di baobab di circa 1.500 anni, cresciuto nei pressi del fiume King, a sud di Wyndham, nell’Australia Occidentale. Questo albero ha una forma molto particolare: il suo tronco misura 5 metri di diametro e 15 di circonferenza, e dentro è completamente cavo, riuscendo così a ospitare più di una persona al suo interno.

 

BAOBAB, L’ALBERO BOTTIGLIA

 

 

Spostandosi di circa 600 chilometri in direzione sud ovest, vicino alla piccola cittadina di Derby troviamo un altro baobab dalla stessa forma. Il nome scientifico di questi esemplari è Adansonia gregorii: si tratta di alberi con un’altezza di una decina di metri e un tronco massiccio, che può contenere molta acqua, da cui il soprannome di “albero bottiglia” con cui è comunemente conosciuta questa specie.

Gli aborigeni australiani, infatti, si procuravano l’acqua da buchi scavati proprio nel suo tronco. Oltre a questo, l’albero offriva anche riparo, cibo e rimedi medicinali, tanto da essere considerato sacro e da venire usato, per un certo periodo, anche da cripta funeraria.

 

UN BAOBAB A TESTA IN GIÙ

Il contrasto tra la struttura robusta e i sottili rami crea lo strano effetto ottico di un albero cresciuto a testa in giù, come se le radici andassero verso il cielo e la chioma verso terra. Secondo una credenza tramandata dagli abitanti del luogo, infatti, un tempo questo baobab era possente e austero. Fu così che gli spiriti vollero dargli una lezione, lo ribaltarono e lo misero al contrario, per insegnargli la dote dell’umiltà.

 

UNA PRIGIONE DENTRO IL TRONCO

 

 

L’albero oggi è famoso anche con il soprannome di Boab prison tree, l’albero prigione: si narra infatti che a fine Ottocento la polizia locale utilizzasse il grande tronco cavo come cella temporanea per i prigionieri (soprattutto aborigeni) in attesa della sentenza. Ma secondo lo storico Kristyn Harman e l’antropologa Elizabeth Grant questa teoria è infondata e basata su una voluta ostentazione del trionfo coloniale sulle comunità aborigene originarie.